COME IL CORONAVIRUS HA CAMBIATO IL MONDO. La Cina dal “soft power” alle decisioni più aggressive e autoritarie: il RCEP ne consacra il peso economico, ma emerge un paradosso che la rende più rafforzata e più indebolita

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Il 2020 sembrava l’anno della consacrazione finale del “soft power” della nuova Cina, potenza autoritaria ma entusiasta della globalizzazione e rispettosa degli impegni multilaterali, pronta a consolidare i suoi investimenti nel mondo, in particolare nei Paesi in via di sviluppo, ma anche in Europa e in Italia.

Proprio all’inizio del 2020 la guerra commerciale con gli Stati Uniti sembrava essere giunta a una prima tregua, almeno momentanea, con la visita alla Casa Bianca di Liu He, vicepremier della Repubblica popolare cinese. E l’Europa cercava un dialogo diretto su argomenti scottanti come il 5G e i rapporti con Huawei, smarcandosi dalla linea dura statunitense su questi temi.

Sul fronte interno, sotto l’egida del nuovo “imperatore” Xi Jinping, il regime cinese aveva imposto un’autorità di ferro alla più numerosa popolazione mondiale, 1,4 miliardi di persone.

Poi è cominciata la diffusione del Covid-19 dalla città di Wuhan. Con l’efficacia e la capillarità che solo uno Stato fortemente autoritario può avere, la Cina ha sigillato intere città e regioni e da un certo punto in poi ha combattuto efficacemente la pandemia, evitando la seconda ondata, senza però dissipare i dubbi sulla gestione dell’emergenza diventata poi globale.

La credibilità internazionale della Cina ne ha risentito e molti Paesi sono diventati più diffidenti. Non solo: a partire da Marzo un’aggressiva strategia diplomatica ha spinto ambasciatori e rappresentanti cinesi in teoria autorevoli ad aggredire verbalmente altri Paesi, sostenendo teorie complottiste sull’origine del virus o diffondendo notizie false per screditare il modo in cui altri governi, soprattutto occidentali, reagivano alla pandemia.

A questo punto, il “soft power” è stato offuscato da una strategia diversa: una serie di decisioni sempre più aggressive e autoritarie nei mesi successivi hanno preoccupato il mondo: pensiamo all’imposizione della legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong e alla repressione violenta che ne è seguita; pensiamo ai rapporti con l’India, che si sono incrinati dopo gli scontri militari tra i due Paesi sull’Himalaya; pensiamo all’atteggiamento aggressivo che la Cina ha rispetto ai Paesi vicini – in particolare Taiwan – e alla crescente militarizzazione del mar Cinese meridionale.

Alla fine dell’anno i dieci Paesi dell’ASEAN – l’associazione delle nazioni del sudest asiatico (Thailandia, Vietnam, Laos, Cambogia, Filippine, Indonesia, Malaysia, Brunei e Singapore) – hanno firmato con Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda il Partenariato economico globale regionale (RCEP): si tratta del più grande accordo di libero scambio della storia, i 15 Paesi insieme rappresentano un terzo del PIL globale. L’accordo consacra il peso economico della Cina nella regione e ha avuto grande risonanza in tutto il mondo (anche per l’assenza dell’India e le perplessità degli Stati Uniti).

La Cina quindi arriva alla fine del 2020 paradossalmente rafforzata e indebolita: rafforzata dall’aver saputo sconfiggere il Covid-19 con gli strumenti propri di un Paese autoritario fondato su una grande disciplina sociale e dal fatto di essere di fatto l’unico grande Stato del mondo a chiudere l’anno con l’economia in crescita, nonostante la pandemia; indebolita perché ha mostrato il suo volto bellicoso e autoritario sia sul fronte interno sia su quello esterno, facendosi non pochi nemici o rendendo una serie di Paesi molto più prudenti nel dialogo con Pechino.

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Stefania Barcella
Giornalista iscritta all’albo dei pubblicisti della Lombardia (IT)